Sosta a Mathura una delle sette città sacre degli hindu.

Leggo che Mathura, Uttar Pradesh, sembra un grosso e sciatto villaggio – come sembra? – ma in realtà è una delle sette città sacre degli hindu. Ci sono Varanasi e Hardwar sulla grande madre Gange, poi Ayodhya il luogo di nascita di Rama, Kanchipuram la grande città tempio scivaita nel Tamil Nadu, poi Ujgiain – non ho mica tanto capito perché -, poi Dwarka dove Krishna regnò da adulto, e infine lei, Mathura, la culla di Krishna.

Qui, cioè, è nato Krishna, l’Essere Supremo, venuto al mondo in una prigione sotterranea, perché l’odioso Kansa, lo voleva uccidere appena nato, come tutti gli altri fratelli, suoi meno fortunati predecessori figli di Devki, la sorella di Kansa, e di Vasudev, il prediletto del re Ugrasen, padre di Kansa e di Devki. Chiaro no?

Una storia di successione al trono e di profezia maligne, un intreccio quasi bollywoodiano per cui Kansa, il cattivo, doveva uccidere i figli della sorella, altrimenti l’ottavo avrebbe ucciso lui. Se ho capito bene, l’ottavo fu proprio lui, Krishna.
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Lo scambiarono di culla e lo nascosero da genitori adottivi. Lui venne su bello come il sole, prima bambino monello nella foresta di Vrindavana – dove parecchi anni dopo nacquero gli Hare Krishna, gli Arancioni -, nutrendosi di fango e universi, poi leggendario amatore – si dice che amò oltre sedicimila donne, beato lui – ed infine eroico guerriero, capace di uccidere uno dopo l’altro tutti i suoi acerrimi nemici, tra cui ovviamente il cattivissimo Kansa, e salvare così l’umanità, diventando l’impareggiabile Dharma Samshaapaka, colui che ristabilisce il Dharma, la legge naturale delle cose. Insomma, un tipo di una certa importanza.

Mathura, addormentata nel mezzo della sacra terra di Braj Bhoomi, la terra dell’eterno amore, ha i suoi momenti di gloria in agosto-settembre, il giorno di Janmastani, il compleanno di Krishna, oppure a febbraio, con la festa di Holi, e nel suo piccolo ogni giorno all’alba, quando i pellegrini purificano corpo e anima e recitano la puja nelle acque sacre del fiume Yamuna, o al tramonto, con le candele donate al fiume per la cerimonia di aarti.

Noi – regolare – ci presentiamo alle tre di un polveroso pomeriggio di fine marzo. Ci guardiamo in giro, un po’ delusi e un po’ impauriti. Qualche vacca che bruca tra i rifiuti, tre bambini che grufolano nella polvere, il classico barbiere di strada, qualche baracchino che vende frutta colorata in bustine di plastica.
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Non c’è neanche nessuno che chiede l’elemosina. Nessun pittoresco sadhu in giro. Avvicino un conducente di ciclo-risciò, ma facciamo francamente fatica a comprenderci reciprocamente. Credo che non riesca ad immaginare cosa ci facciamo qua, con il nostro bambino di sei anni con la pelle bianca come il latte e i capelli arancioni come i tramonti. Lui pare essere la principale attrazione del posto, oggi pomeriggio. Tutti lo guardano con curiosità. Cerco di spiegarmi. Vogliamo vedere i ghat, gli dico.

Nessuno va ai ghat a quest’ora, mi risponde. Vogliamo vedere i templi. Solo gli hindu possono entrare nei templi. Voglio vedere la vita, dico allora. Sorride, fa spallucce, ci carica tutti sul risciò e parte. Pedala e pedala, ci porta “in centro”. Ecco la vita. La gente che vive. Che si arrabbia per gli ingorghi del traffico, asini che bloccano un trattore che blocca una mucca che blocca la moto e così via. Che cuce e cucina in strada. Sorrisi di ragazze.
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Bambini che escono da scuola, in divisa, in quindici su un risciò. Ridono. Gli adulti chiacchierano. Aspettano. Tutti sembrano aspettare qualcosa. E arriviamo ai Vishram Ghat, le gradinate che scendono al fiume per le abluzioni. Dove, come previsto, non c’è nessuno, o quasi. Ma il giro in barca è d’obbligo. Ed è bellissimo. Come a Varanasi, su una riva i palazzi e i templi, un po’ meno sontuosi magari, ma sempre sporchi e diroccati – tra i quali un certo numero che reclama lo stato di luogo dove nacque Krishna, alcuni con tanto di prigione sotterranea originale – sull’altra riva nulla, erba e bufali. Riposo. Ragazzini che ci seguono passo passo sulla riva, di ghat in ghat. Scimmie. Un santone si pettina la barba e mi ammonisce da lontano: niente foto, please. Sorry, già fatto, ma non lo faccio più.  È qui che ci sono i tirtha, i guadi, i punti di passaggio tra la sfera umana e quella divina. Chiudo gli occhi. Non li trovo, i guadi, ma mi godo il momento. Perfettamente a mio agio nel mio ruolo di turista fuori posto e fuori tempo.
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