Il Fitz Roy deve la sua fama d’impossibile alle enormi pareti rocciose ricoperte da lastroni di ghiaccio ed alle proibitive condizioni climatiche

Il Fitz Roy è detto anche Chaltèn, monte che fuma. Così l’avevano battezzata gli Indios, credendolo un vulcano per via della nebbia che ne avvolge la cima.

Alto poco più di tremila metri, il Fitz Roy deve la sua fama d’impossibile alle enormi pareti rocciose spesso ricoperte da lastroni di ghiaccio ed alle proibitive condizioni climatiche. Le stesse condizioni climatiche che fecero dire a Lionel Terray, il mitico alpinista francese che nel febbraio 1952 fu il primo, con 7 compagni, a scalare il Fitz Roy: "È stata l'unica montagna che ha messo alla prova la mia capacità di sopportazione e anche il mio morale”.

Itinerario consigliato: 1° giorno El Chalten - Campamento Poincenot Lasciare El Chalten camminando verso nord sulla strada principale RN23 per il Campamento Madsen. Svoltare a sinistra all’evidente bivio, seguendo il sentiero che conduce dolcemente in salita attraverso un bosco meraviglioso. Dopo la vista fantastica verso nord sul Rìo de las Vueltas si sale nel fitto bosco, e a volte si intravedono le cime all’orizzonte. Dopo circa 2 ore il Fitz Roy appare, tutto ad un tratto, lasciandovi senza fiato. Il sentiero continua, e verso sinistra scende un altro sentiero (indicazioni) alla tranquilla Laguna Capri in soli 15 minuti. Questa deviazione è consigliata; l’acqua, chiara come il cristallo, riflette le montagne che tronano a distanza. Alcuni trekkers scelgono di dormire qui, ma se volete vedere il Fitz Roy dal belvedere all’alba vi consigliamo il più popolare (e affollato) Campamento Poincenot. Tornare al sentiero principale e continuare per arbustri e brughiera fino alle indicazioni per la scorciatoia (non percorribile) che, da ovest, collega il Fitz Roy trek con quello del Cerro Torre. Il nostro percorso prosegue invece in un largo arco verso NO, a volte attraverso una palude, seguendo segnalazioni gialle per un ponte e poi verso sinistra attraverso il bosco fino allo spazioso Campamento Poincenot. Se fatto come trek di un giorno, attraversare il campeggio per godere la vista sul Monte Fitz Roy per poi ritornare lungo la via di salita. Altrimenti mettere su la tenda e godere la vista. 2° giorno Campamento Poincenot - Laguna de Los Tres (Monte Fitz Roy Lookout) - return Il trek da Campamento Poincenot a Laguna de Los Tres offre una vista spettacolare sull’intero massiccio del Fitz Roy; una partenza presto la mattina e buon tempo vi regaleranno un’alba da non dimenticare. Lasciare Campamento Poincenot attraversando prima un piccolo fiume poi, continuando verso ovest, un ponte sospeso sopra il furioso Rio Blanco per entrare nel Campamento Rio Blanco, il campo base usato dagli alpinisti. Tenere la sinistra per seguire il sentierino fuori dal bosco sul ripido pendio ghiaioso. Questo porta, dopo un salto, alla cresta vera ed il bellissimo belvedere con viste sulla Laguana de Los Tres, l’impressionante massiccio del Fitz Roy, e le desolate steppe che si estendono per centinaio di chilometri verso est. Il contrasto non potrebbe essere più grande. Da qui ritornare al campeggio, rifare la tenda e ritornare lungo il sentiero di salita a El Chalten.


Dicono che i sogni non si risognano, però quando osservavo la gioia che rideva negli occhi di Horacio e Luca, mentre distillando l’ultima fatica mi raggiungevano sopra l’orizzonte infinito del Chaltèn-Fitz Roy, ho capito che avevano appena realizzato il sogno della vita, il loro sogno impossibile.
Li guardavo in silenzio, a tratti e a lungo, provando sensazioni ed emozioni più di quante ne possa contenere il cuore, prima che il vento si portasse a spasso anche i miei pensieri.
Come passa il tempo! Dopo vent’anni mi ritrovavo di nuovo lassù, con compagni diversi ma che stavano vivendo la loro prima grande ed irripetibile esperienza, ancora in quell’angolo di cielo terso e amico intento a forgiare vitalità e soddisfazione, percependo quel grandioso ambiente con tutti e cinque i sensi, quasi a non accorgermi di quegli attimi fuggenti.
Ora sulla "cumbre", mentre il vento ci avvolgeva già dal mattino con le sue raffiche gelide ed intense, cercando continuamente di insinuarsi maligno tra le varie indecisioni e le nostre fragili certezze, fermavo ogni tanto lo sguardo più in basso sulle rocce rosse della cresta di uscita della Supercanaleta e vari ricordi mi affollavano la mente: dalla mia prima volta quando sbucavo da quella cresta, alle altre grandi esperienze vissute sui picchi di fronte, su quelle strane Torri incappucciate da curiose meringhe ghiacciate.

Chaltèn… Fitz Roy, la montagna dai due nomi. E’ curioso ritrovarsi a pensare quale nome sia più adatto per il colosso di granito che domina di slancio tutta la Patagonia.
Chaltèn, il monte che fuma, per via di quelle nubi vorticose che avvolgendone spesso la cima si sfilacciano poi veloci nel cielo. Sarebbe questo il vero nome, l’originale dato dagli indios Tehuelche a quella imponente montagna che credevano fosse un vulcano. Ed a pensarci bene è stato un vero peccato che, in piena era coloniale, di sterminio fisico, di odio e di annientamento della tradizione india, al Perito Francisco Moreno sia venuto in mente, purtroppo, di ribattezzare quella magnifica montagna con il nome del capitano della nave inglese Beagle.
Sarebbe davvero suggestivo se questo splendido simbolo di pietra dagli infiniti orizzonti potesse ritornare ad essere il Chaltèn degli antichi Tehuelche, però mi rimane l’impressione che quel nome le sia stato rubato una seconda volta. Di questi tempi votati al turismo globale, quando si dice Chaltèn balza ormai subito alla mente quel villaggio sorto ai suoi piedi troppo in fretta per questioni politiche, senza regole né buon senso, gran brutto esempio di anarchia urbanistica al limite tra la pampa desolata e gli sterminati ghiacciai, i grandi laghi ed il parco nazionale.

Da tre lunghi anni però avevo una parte di cervello sempre parcheggiata sulla parete nord-est del Chaltèn, da quando con Fabio Leoni e Rolando Larcher c’eravamo illusi di credere nella benevolenza della sorte, avventurandoci per circa 500 metri lungo i fianchi spigolosi della parte bassa per poi, dopo sei lunghi e penosi bivacchi nelle portaledge, appesi solamente alle nostre speranze, subire l’inevitabile "fracaso" del "Todo o Nada", ricacciati ed investiti immeritatamente sotto le slavine dalla più brutale bufera che io possa ricordare.
Quando nel cervello di un uomo da tempo scodinzola troppo la curiosità è risaputo che non occorre più dargli molti consigli perché tanto sa sbagliare da solo. E a me è capitato di tornarci nel frattempo altre due volte senza però grandi disegni nella testa, solo richiamato dal fascino di quei grandi spazi spesso resi impenetrabili dai densi fumi di tempesta; perciò forse solo per questo mi rimane ancora il beneficio del dubbio di non avere proprio del tutto sbagliato.

Sono quindi tornato in dicembre accompagnato dall’entusiasmo della prima volta di Fabio Giacomelli "Giac" e dalle timide esperienze patagoniche su montagne minori di Horacio Codò e Luca Fava; chalteniani d.o.c., perché da dove abitano, il Fitz Roy, la montagna simbolo, il gigante patagonico, il loro mito, "tiempo feo" permettendo ce l’hanno proprio stampato davanti come su un’eterna cartolina.
Durante la seconda metà di dicembre e per quasi tutto gennaio le condizioni ambientali e meteo non ci aiuteranno di certo a sperare granché, facendo presagire ad un altro disastroso sbaglio. Riusciamo comunque a salire in condizioni quasi invernali i primi seicento metri di parete con presenza di molta neve, fessure e diedri intasati di ghiaccio e placche rese ancora più difficili ed infide dal vetrato, scegliendo così, soprattutto per motivi di sicurezza, di attrezzare la via fino alla comoda cengia del "Bivachotel Patagonicus"; la quale comodità di bivacco risulterà poi fondamentale per superare l’impressionante susseguirsi di difficili placconate nella parte superiore della parete, senza mai scendere.

Verso i primi giorni di gennaio "Giac" termina le sue ferie e quindi se ne deve rientrare a malincuore in Italia mentre con Luca avrò modo, ancora per alcuni giorni, di tornare a ricucire pazientemente qualche speranza durante le lunghe attese nella "cueva de hielo" al Paso Superior. Per Horacio e Luca era la prima volta su una grande parete e, avendo poca esperienza, dapprima non si fidavano neppure di confidarmi che sarebbe piaciuto loro almeno provare a mettere le mani sul Chaltèn. Leggendo il loro immenso desiderio negli occhi mi è venuto quindi spontaneo incoraggiarli ad intraprendere la loro prima grande avventura.

Nessuno di noi credeva veramente nella riuscita della salita. L’abbiamo affrontata sin dall’inizio con semplicità ed essenziale rispetto, senza tante velleità e solamente con l’idea di divertirci arrampicando il più in alto possibile. Niente spirito agonistico quindi, anche perché lassù non c’è proprio nulla da conquistare... niente eroismi e nessuna sfida, battaglia o guerra da intraprendere per alcunché con relative vittorie o sconfitte, e la totale assenza di "contratti", media, sponsor e condizionamenti commerciali. Solo un vero alpinismo di ricerca rivolto più al recupero del rapporto umano, senza fretta, record da battere o corse che lasciano indietro i compagni. Non ci siamo fatti "annunciare" da nessuno, però poi in silenzio, piano piano, le cose si sono succedute da sole e salendo abbiamo recuperato la fiducia, sbloccando di conseguenza anche il cervello.

Succede raramente che il vento si intenerisca, però ancora adesso mi piace pensare che lui abbia apprezzato la nostra genuina semplicità. Tutti i nostri movimenti volevano raggiungere un desiderio ma ci sembrava troppo grande per manifestarlo apertamente. Lui ha capito e ci ha deliziato con il tempo giusto, quell’azzurro da sogno che rende più profondo il cielo di Patagonia.
I nostri passi avanzavano increduli, quasi in punta di piedi per non disturbare troppo quel silenzio assoluto, segnando il tempo ed i giorni immersi in un’incredibile atmosfera.
Se è vero che in ogni opera di genio ritroviamo i pensieri che abbiamo scartato, salendo lungo quelle placche rifuggenti che non finivano mai, sentivamo quei pensieri ormai smarriti trasformarsi giorno dopo giorno in una superba linea di eleganza.

Come delle piccolissime pulci sperdute in quell’immane mare di granito arrampicavamo tutto il giorno tra le pieghe di quella grande montagna a lungo immaginata, per poi tornare la sera a riposare sdraiati sul comodo terrazzo nel mezzo della parete a picco sul vuoto, su quella breve linea sospesa a quasi 600 metri dal ghiacciaio, sotto una luna che diventava sempre più grande.
E quando ormai nella notte, richiudevamo stanchi la cerniera del sacco a pelo contro i nostri nasi, dopo che negli occhi si era impressionata la magia colorata del crepuscolo e la piramide del Chaltèn proiettava la sua lunga ombra lontano sugli altopiani ormai spenti della Patagonia, ci sentivamo veramente addosso il raro privilegio della sorte, mentre una miriade di pensieri si confondevano sospesi tra le mille luci della profonda ed oscura volta stellata.

Al mattino, con le mani gonfie e le dita consumate dal granito, era sempre un brivido ripartire dal nostro bivacco risalendo lungo la prima fascia strapiombante, poi, di nuovo riabituati i polpastrelli alla roccia, la verticalità continuava a sorprenderci con un’arrampicata particolare ed in una dimensione di continua scoperta. Solo di fianco, la sagoma caratteristica del pilastro Casarotto fungeva da nostro metro di riferimento e ci pareva di non arrivare mai all’altezza della sommità del gran diedro che lo stacca dalla mole del Chaltèn, rendendolo quasi un’unità a sé.
Ogni angolo, ogni anfratto, terrazzo, placca, diedro, camino o fessura, ogni piega, ogni metro di quella grande parete svelava una realtà separata, un mondo a sé, quasi irreale da come lo immaginavamo osservandola dal basso.

Poi, come tutte le storie che finiscono bene, dopo sei bivacchi in parete, dei quali uno gelido poco sotto la "cumbre" e sette giorni passati nel sogno, ci siamo risvegliati d’un tratto ad un soffio dal cielo a guardare tutta la Patagonia dall’alto, affacciati sul fascino di nuovi orizzonti dall’infinito belvedere del Chaltèn. Unico rammarico, però, rimane quella pietra cadente che mi colpirà la mano il mattino dopo essere scesi a bivaccare di nuovo a metà parete, mentre risalivamo a recuperare le ultime corde che non eravamo riusciti a togliere la sera precedente scendendo dalla cima. Pareva tutto di un tratto che persino il tempo si fosse capovolto.
Poi, durante le calate verso il ghiacciaio con la mano destra bloccata, uno strano tarlo mi rodeva un po’ dentro nel vedere la roccia finalmente asciutta e pulita dalla neve e dal ghiaccio dopo otto giorni di bel tempo. Durante tutta l’ascensione avevamo trovato condizioni piuttosto complicate, dapprima per la presenza di molta neve sulla parte bassa e poi, durante i primi quattro giorni di salita lungo la parete superiore, ci siamo ritrovati alle prese con fessure e diedri intasati di ghiaccio con cadute di pulizia della neve accumulata durante il precedente lungo periodo di maltempo.

Ora, con il granito in quello stato e la conoscenza dei passaggi, sarebbe stato puro divertimento, dopo un breve recupero, provare a rifare la salita in arrampicata libera… ma purtroppo quella seppure piccola riserva di malasorte ci ha voluto ancora una volta mettere lo zampino ricacciandomi a casa con un ricordino non proprio gradito.

di Elio Orllandi

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